Oggi ho pubblicato sul mio profilo Facebook una riflessione a seguito di alcune critiche arrivateci per il nostro modo di affrontare come band la situazione #Covid19 #Coronavirus. Questo pensiero in poche ore è stato inaspettatamente letto da migliaia di persone e ricondiviso da centinaia di queste su altrettanti profili, generando una scia luminosa che ha lasciato un segno e che ci ha commossi. Per tale ragione riproponiamo anche qui il post.
Un abbraccio a tutti
The Sun
Negli ultimi giorni alcune persone hanno sottolineato il mio silenzio rispetto alla situazione generatasi con la diffusione del #covid19 o #coronavirus. “Dovresti dare dei segnali, fare qualcosa: non vedi quanti artisti stanno utilizzando i social giorno e notte, dando tutti lo stesso messaggio. Perché tu non lo fai? E i The Sun? Non è da voi…”.
Capita di venir criticati: se scrivi, canti, proponi delle idee è una condizione del mestiere. Tuttavia nel mio caso, quando mi vengono mosse delle critiche, mi investono più che altro per qualcosa che dico o faccio, o per le posizioni che prendo su temi che buona parte dei miei colleghi evita di toccare. Riceverle, invece, per qualcosa che non ho detto/fatto, mentre tanti altri artisti – molto più noti e influenti di me – sono unitariamente impegnati in una stessa direzione, è un’assoluta novità.
Sabato scorso, prima del blocco generale…
Vi racconterò una storia, seguita da una piccola riflessione in punta di piedi, tentando così di dare una risposta a quanto sopra.
Sabato scorso, prima del blocco generale, sono dovuto uscire dallo studio di registrazione per un acquisto in una libreria della bellissima Bassano del Grappa. Pensavo di non trovare anima viva in giro. Invece, le vie del centro brulicavano di persone, famiglie, compagnie di adolescenti, coppie a passeggio, ecc. Era una bella giornata di sole, sembrava tutto normale: bar semi pieni, tavolini e sedie nelle piazze senza un posto libero, spritz e aperitivi a gogo… Insomma, pareva un normale sabato pomeriggio veneto.
Mentre camminavo in una zona particolarmente affollata, mi accorgo che, inginocchiato a lato della strada, c’è un signore che chiede l’elemosina. Un uomo sulla cinquantina, castano brizzolato, occhiali da vista, con indosso un vecchio giubbetto in jeans, lo sguardo rivolto a terra. Trasuda imbarazzo. Si vede chiaramente che non è abituato a chiedere l’elemosina.
Tra le mani un cappello rivolto al cielo, al suo fianco un piccolo cartello che descrive brevemente la sua difficile situazione. Tutt’intorno un via vai di persone perlopiù vestite con abiti griffati, orologi costosi, scarpe artigianali, occhiali lucidati: la classica passerella di una ricca città di provincia. Noto però che praticamente tutti sfilano senza accorgersi di lui, quasi fosse invisibile. E se qualcuno lo scorge, subito si scansa, stando a debita distanza. Intanto, io resto lì ad alcuni metri, osservo ciò che la realtà mi sta proponendo e rifletto…
La freddezza con cui quei cappotti sfrecciano di fronte al volto di un uomo in ginocchio mi fa mancare l’aria. Non riesco a capacitarmi di una tale indifferenza, come se per qualche motivo mi aspettassi che la gente negli ultimi mesi fosse miracolosamente cambiata (da circa 70 giorni non mi recavo in un centro, perché quando sono in studio di registrazione ho una vita semi eremitica, a prescindere dal covid-19🙂).
Un istante potente che apre il cuore e allarga l’orizzonte.
Con il cuore stretto in una tenaglia, mi avvicino all’uomo. Il suo cappello è vuoto. Lascio un pensiero. Lui alza lo sguardo: ci sorridiamo. Un istante potente. Mi domando come sarei io al suo posto. Come guarderei la realtà, le persone, come giudicherei me stesso e gli altri? Intanto, ancora con un sorriso reciproco, ci salutiamo. Mi allontano, ma dopo alcuni metri mi rendo conto di avere un nodo in gola. Sento il bisogno viscerale di ascoltare quegli occhi. Mi giro per tornare verso di lui e mi accorgo che sta piangendo: un uomo di cinquant’anni, inginocchiato in una delle vie più ricche d’Italia, piange perché qualcuno si è accorto di lui.
Il suo pianto mi devasta. Mi avvicino. Ci presentiamo. Lui si alza. I nostri sguardi ora sono finalmente alla pari. Occhi verdi. Mi racconta la sua storia (per tutelarlo resterò vago): padre di famiglia, italiano, laureato, impiegato in un settore particolare legato ai suoi studi, perde il lavoro a causa di una ristrutturazione. Ora sbarca il lunario con impieghi saltuari perché, avendo superato i 50 anni, la sua candidatura a nuovi posti fissi non funziona. Il mutuo per la casa in una città costosa, i figli da mandare a scuola, i soldi che mancano. L’ultima spiaggia: chiedere l’elemosina per strada.
Mentre continua il racconto, la tenaglia stringe il mio cuore ancora più forte. Intanto, la sfilata prosegue, con l’aggiunta di numerosi sguardi indisposti per il mio esser lì con quell’uomo, proprio di fronte a un bar alla moda, quasi desse più fastidio vedere uno di “loro” fermarsi con un fratello che doveva restare invisibile, in ginocchio, senza attirare l’attenzione o disturbare qualcuno. Sono passati otto giorni, ma non smetto di pensarci.
Uno stramaledetto virus ci sta dicendo cosa siamo diventati.
Siamo in una situazione di pericolo generale. Sì, ma lo siamo da molto tempo. Da molto prima di questo virus.
La nostra società non concepisce l’idea di collettività e di fraternità, perché il dio-individuo è il centro. E se è vero che il rispetto e il valore dell’individualità è una delle buone basi culturali della nostra civiltà, la sua estremizzazione devasta tutto. Non servono le prove: le abbiamo davanti agli occhi, ma voltiamo lo sguardo fintantoché l’acqua non ci tocca la gola, cioè fino a quando non giunge la paura della nostra morte e del collasso di un sistema. Serviva uno stramaledetto virus per dimostrarlo.
Ci mancherebbe che ora non ci si adoperi per arginare questa pandemia! Benedetto il Cielo: restiamo a casa! Laviamoci le mani, atteniamoci ai protocolli e, mi par di sentire tra i pensieri di molti… salviamoci il culo! Senza tanti giri di parole, perché questa è la sostanza. Ma non sento il bisogno o il dovere di ripetere indicazioni che vengono ribadite da chiunque, compresi personaggi noti e influenti. Sapete che sono allergico alle prese di posizione dove l’unica opzione è l’applauso. Perché parte di queste persone non direbbe assolutamente nulla se non si trattasse di qualcosa che di per certo farà aumentare le visualizzazioni, incrementare i follower, ottenere un’ovazione collettiva e un più alto gradimento del pubblico.
Noi piccoli The Sun, insieme ad alcuni altri colleghi cari ma rari, da anni parliamo quando molti “grandi” tacciono, difendiamo chi è debole quando il sistema attacca, denunciamo quando i media stanno in silenzio, sosteniamo con costanza progetti e persone che fanno il bene sempre, non solo quando la massa si trova a fronteggiare una pandemia. Gli ultimi anni della nostra vita sono ciò che scrivo.
Non basta un #celafaremo se non cambiano le nostre scelte.
La morte che dilaga sul nostro pianeta da decenni, e non mi riferisco al Covid-19, è causata da terribili incoscienze politiche e spirituali; è una morte che si serve del virus letale dell’indifferenza e della mancanza di empatia e carità; si nutre di ciò che il cristianesimo definisce “peccato originale”. Quella disposizione oscura che insidia ogni uomo dall’interno e lo spinge a pensare di poter fare e disfare avidamente senza limiti sostituendosi a Dio. Un male che attecchisce in ognuno di noi quando dimentichiamo di coltivare la fraternità nelle nostre relazioni, azioni e progetti quotidiani. Quando calpestiamo l’empatia e la fraternità dall’uomo, la morte ha la meglio. Punto.
#celafaremo è un bellissimo incitamento, di cui anch’io sono convinto. Ed è importante adesso lanciare messaggi di speranza e di unità. Se affermassi il contrario, andrei contro tutto ciò che sento. Ma la Speranza ha valore perché è radicata solidamente in basi inalterabili: la Fede, la Carità, la Prudenza, la Fortezza, la Temperanza, la Giustizia. L’idea di speranza che si ripesca dalla soffitta quando ci si ritrova di fronte a un’onda che sta per sommergerci, è ben diversa. È una “speranza da social network”, di chi – e mi ci metto dentro anche io – non sa nemmeno lontanamente cosa siano la fame, la carestia, la guerra, la dittatura, la persecuzione a fil di spada.
Sono forse troppo ottimista se continuo a pensare che non sia necessaria una pandemia per ricordare che siamo una cosa sola, che tutto è interconnesso, che vivere in uno stato di pericolo di vita è devastante? Eppure, molti fratelli, anche vicini a noi, vivono queste tragedie costantemente senza che la stragrande maggioranza di noi se ne curi, senza che grandi personaggi televisivi e i mitici cantanti si espongano per loro. #celafaremo è un concetto che deve sostenere costantemente tutta la nostra vita, non solo quando ci sentiamo in pericolo. Quel “ce la faremo” dipende sostanzialmente dalle scelte più o meno empatiche che facciamo ogni benedetto giorno, non solo mentre ci è chiesto di stare a casa per evitare che il contagio dilaghi.
La testimonianza di un’amica volontaria.
Mi ha confidato in questi giorni una cara amica volontaria: “È eroico, quando già si lavora sei giorni la settimana con turni di 12 ore, mettere a disposizione intere notti o weekend per prestare servizio come volontario. È eroico far nascere un bambino su un’ambulanza in corsa in un normale martedì sera, invece di godersi un po’ di meritato riposo spaparanzati sul divano. È eroico passare la domenica mattina a constatare il decesso di un ragazzo di 26 impiccatosi il giorno prima, invece di alzarsi tardi e fare colazione con i propri figli. È eroico svegliarsi alle 3 di notte d’inverno per andare a soccorrere un ubriaco che ti fa la pipì addosso, e saperci comunque riderci su”.
È questo che mi piacerebbe si ricordasse, come mi ha scritto anche lei: che queste persone – medici, infermieri, farmacisti, altri soccorritori – sono eroi non per quello che fanno ora per combattere il Covid-19, ma per quello che fanno sempre nel silenzio e nell’anonimato di ogni giorno, senza che gli venga richiesto da un’emergenza a livello nazionale e senza che nessuno li ringrazi. Lo facevano prima del Coronavirus e continueranno a farlo dopo, come chiunque vive una sincera vocazione all’amore, perché chi ama la vita, trova sempre il modo per “servire“.
Il ruolo dell’artista, la riscoperta del Bene Comune, la forza della preghiera.
“Il ruolo dell’artista è quello di contrastare la cultura dello scarto ed evangelizzare. L’artista è il testimone dell’invisibile, e l’opera d’arte è la prova più forte che l’incarnazione è possibile” (Papa Francesco). Tutto ciò che avviene sul piano naturale della nostra incarnazione, ci dovrebbe rimandare allo spirito, al cuore, al trascendente. Allora sì che questa situazione così surreale potrà risvegliare la gioia di riscoprire il Bene Comune come ideale massimo a cui tendere, ci darà la gioia di tornare a collaborare per custodire la nostra casa interiore ed esteriore, la gioia di riassaporare l’immensa straordinarietà che c’è nell’ordinarietà della nostra benedetta vita.
C’è un segreto semplice, che vale più di tutti: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc. 12,31). Non siamo capaci di farlo fino in fondo, è vero, soprattutto quando abbiamo paura. Allora ci viene in aiuto una potentissima e antichissima forza, tanto osteggiata, ridicolizzata e dimenticata… forse vi starete domandando cosa sia: pregare insieme, anche da distante. Pregare davvero. L’unità del cuore è più forte. E grazie a Dio molti #SpiritidelSole non hanno mai smesso di credere in questo, a prescindere dalla presenza di un virus.
Artisti e non, siamo fratelli credibili per quello che facciamo sempre, soprattutto nel silenzio e nell’anonimato di ogni giorno, senza che ci venga richiesto da una pandemia.
Allora si che #celafaremo.