13 dicembre.
Il volo per Amman aveva un orario tragico. Parto da casa mia a mezzanotte, passo a prendere Mike a Marostica, lascio l’auto dai miei, arriva Ricky a recuperarci, ci fermiamo a dare un saluto al Mister nella cappellina dell’Adorazione a San Sebastiano e poi, come sempre, ci troviamo con tutti da Boston a Thiene. Fa un freddo cane, ma siamo allegri.
In aeroporto a Bergamo ci raggiunge Pigi (Giovanni, il nostro fonico)… ci siamo! Voliamo. Atterriamo.
L’aeroporto di Amman è più piccolo di come lo immaginavamo. Ad aspettarci c’è Mario tutto bardato con cappellino di lana e giubbottone, una specie di big brother che ci accoglie con il suo abbraccio e la sua risata! Appena usciti capiamo immediatamente che la calda Giordania in dicembre non è per niente calda!
Furgoncino Hyundai. Boston, l’esperto di motori, ci fa notare subito le differenze rispetto ai modelli del mercato europeo.
Dopo dieci minuti che siamo per strada eccoci rinsaviti: siamo noi… risate, domande… E Ricky che s’addormenta dopo pochi istanti nella famigerata posizione del “collo spezzato”.
L’accordo con Mario era che oggi, visto che non dormivamo da 30 ore ed eravamo dei “morti viventi”, saremmo stati in hotel per recuperare le energie per i tanti impegni dei giorni successivi. Risultato: restiamo in hotel 7 minuti, poi Mario ci convince ad andare “a fare una schitarrata per le ragazze”, come dice lui. Le ragazze… quali ragazze? Sono un gruppo di giovani rifugiate irachene che, grazie a una idea di Mario, hanno l’opportunità di lavorare per un progetto di moda che si chiama Rafedìn (Made by Iraqi Girls), che produce abiti e accessori di qualità presso il Centro Pastorale Mar Yousef. Il viaggio vero è già cominciato, ma noi non lo sappiamo. Questo primo incontro si imprimerà in noi e lascerà un segno.
Quando arriviamo nel laboratorio delle ragazze è subito una esplosione di emozioni: loro ci accolgono con grande entusiasmo, gioia e sorrisi, mentre noi ci ritroviamo inizialmente un po’ spaesati. In quel momento, dietro le nostre facce provate dalla stanchezza del viaggio, mi rendo conto però che c’è un’emozione immensa, seppur nascosta: stiamo realizzando che quelle giovani donne sono qui e hanno ritrovato dignità e libertà dopo essere fuggite dalle loro case, dalla loro terra, perseguitate solo perché cristiane e cattoliche. Guardandole penso a ciò che hanno vissuto e hanno visto. Noi non possiamo capire. Eppure ora sembrano così… normali! Mi chiedo come sarei io al posto loro. Questa domanda mi accompagnerà per tutto il viaggio.
Mario ci introduce e così parliamo un po’: una di loro parla perfettamente inglese e traduce a tutte le altre cosa diciamo. Le ragazze ci raccontano del lavoro che stanno facendo (che è davvero di qualità!) e dopo pochi istanti il nostro imbarazzo se ne va… tanto che Lemma in quattro e quattr’otto si avvicina agli appendini degli abiti e in un batter d’occhio indossa un giubbottino stile “film di Sergio Leone”, a cui fa seguito Ricky con una casacca in pelo mimetico alquanto bizzarra. A quel punto corro a mia volta ad indossare un cappottino di pelo color blu elettrico, Boston un cappottino di pelo bianco in stile trapper di ultima generazione e Cherry… beh… a Cherry è andata meno bene: lui si mette una pelliccetta da moicano davvero terribile, che però rende noi quattro quasi accettabili.
Dopo questa scenetta simpatica e relative foto, suoniamo tre pezzi: Cuore Aperto, Nelle mie mani e San Salvador. Come al solito con abuna Mario le sorprese non mancano mai, e questa “schitarrata” non prevista ci fa entrare subito nel clima giusto.
A metà pomeriggio, digiuni dal giorno precedente, la fame si fa sentire. Così Mario ci porta a conoscere l’altra realtà da lui pensata e realizzata in quest’ultimo periodo: un ristorante italiano gestito totalmente da rifugiati iracheni che sono stati formati da cuochi e pizzaioli italiani. Il ristorante si chiama Mar Yousef’s Pizza! Mangiare italiano come primo pasto in Giordania sulla carta non prometteva bene, ma poi ci siamo ricreduti e abbiamo ringraziato il cielo: Allen – il capo chef – e i suoi ragazzi sono davvero mitici!!! Un ristorante italiano in Giordania dove si mangia… da Dio 🙂
Con l’occasione di questo lungo pranzo/cena, ci fermiamo a parlare con questi ragazzi iracheni, molti dei quali vengono proprio di Mosul. Cominciano i primi racconti della guerra, di cosa sia l’Isis, di cosa significhi essere cristiani in un mondo musulmano radicale. Il sorriso di Loay, che ci serve con il cappellino da babbo natale, è un ossimoro costante rispetto ciò che ci racconta.
Nuovamente resto senza parole: un sorriso e una lacrima convivono sullo stesso volto.
Chi ha letto La strada del Sole sa che don Mario ha un talento innato per le sorprese che danno colpi all’anima e scuotono la coscienza. Ciò che abbiamo vissuto nelle ultime ore è già stato più che abbastanza, ma lui… no… lui vuole portarci a salutare i bambini nelle scuole. La cosa suona strana, perché sono ormai le 18 e a quest’ora ci par strano trovare degli alunni in una scuola, ma lui ci dice: “dai, ‘ndiamo che si fa tardi!”. Attraversiamo Amman, arriviamo in una zona evidentemente poco “in”. C’è un casino assurdo, ricorda a tratti la città di Nablus in Palestina. Auto ovunque, case e cose, cose e case. Ci infiliamo poi in una laterale e arriviamo alla scuola informale “Our Lady of Carmel”.
Ci sono studenti dalle elementari alle superiori. Sono centinaia. Mario ci porta in tutte le classi, una ad una, una alla volta. Ce li fa salutare tutti. E… Tutti questi ragazzi e ragazze sono iracheni cristiani fuggiti dalla persecuzione degli islamisti del califfato.
Di nuovo non si può capire cosa sento nel cuore.
“Per molto tempo non hanno potuto studiare, né fare nulla di normale. Se togli a un giovane la possibilità di andare a scuola gli togli tutto, perciò abbiamo pensato che, nelle ore in cui la scuola viene lasciata deserta dagli studenti giordani, la possiamo utilizzare per far ripartire le vite dei giovani iracheni”. Ascoltiamo Mario in silenzio. Poi interviene il preside, iracheno anche lui: “Molti tra noi erano insegnanti e dirigenti scolastici in Iraq. Così abbiamo pensato di fare ciò che era più naturale per noi: tornare ognuno a fare la propria parte, chi lo studente, chi l’insegnante”. Così questa comunità, grazie al Patriarcato latino e altri cooperatori e sostenitori, ha fatto ripartire la normalità: lavorare, studiare, essere insieme a scuola. Ora capisco perché questi ragazzi sembrano così felici di essere qui a studiare alle sette di sera.
Nelle classi dei più piccoli ci fermiamo di più. Scherziamo con gli alunni, ci fanno domande sulla nostra musica, la nostra storia, il nostro look… cose semplici, ma che scaldano il cuore. Ci confessano che non vedono l’ora di venire al nostro concerto.
Sono emozionatissimi, ci dicono che per loro sarà una cosa eccezionale. Ma loro non sanno che lo sarà ancor più per noi.
Mi chiedo come farò a suonare di fronte a loro senza bloccarmi per la commozione.
Il colpo di grazia è quando Mario, prima di uscire, ci porta ad ascoltare il coro. Studenti di tutte le classi stanno cantando nella piccola chiesa della scuola per preparare il concerto di Natale. Questo è uno dei momenti che più mi resterà dentro. L’insegnante ci dice “Now we’re gonna sing our prayer, The Holy Father, in aramaic, the same words used by Jesus. Please let’s pray with us!” – “Ora canteremo la nostra preghiera, il Padre Nostro, in aramaico, proprio con le stesse parole utilizzate da Gesù. Per favore, pregate con noi!”. Ascoltare il Padre Nostro cantato in aramaico da questi ragazzini mi fa esplodere il cuore. Si tengono per mano. Hanno gli occhi chiusi. Credono in ciò che stanno cantando, la loro preghiera è potente, perché vera. Questi giovani hanno lasciato tutto e rinunciato alla loro terra e le loro case per amore della Verità.
“Quando quelli dell’Isis sono arrivati a Mosul ci hanno detto: “o vi convertite all’islam, o ci pagate la tassa per restare, o vi ammazziamo”, ci dice il preside. “La tassa era una presa in giro, sarebbe durato poco e saremmo stati ridotti in schiavitù. Poi un amico musulmano una notte è venuto a casa mia mi ha detto: scappa, porta via la famiglia! Perché domani vi uccideranno!”. Un pugno in faccia stordisce meno di queste parole.
“Essere cristiani significa credere nella libertà, e la libertà è Cristo, per questo ci odiano. Ma noi non rinnegheremo mai la nostra fede, per questo abbiamo lasciato tutto”. Mi fermo, perché non desidero scioccarvi oltre.
Ci abbracciamo con il preside, commossi.
Ho il cuore che esplode. Tutto ciò mi fa vivere una certa strana e indecifrabile emozione che provai solo una volta prima d’ora, durante il nostro primo viaggio in Terra Santa, una sera di fine febbraio del 2011.
Certe storie ti cambiano, come uomo e come cristiano.
E’ solo l’inizio.
Foto di © Michele Rebesco e © Francesco Lorenzi.